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Volare in terra e camminare in cielo

sabato 5 febbraio 2011

La sofferenza. Perche'?

Un pensiero che ho molto apprezzato di una persona che non conosco ma al quale Gesu' mi unisce.

Da http://www.cattoliciromani.com/forum/showthread.php/bene_male_sofferenza-33424.html?p=803621 di Federico Pellettieri:

" Uno dei problemi che da sempre ha assillato la mente umana nel tentativo, mai riuscito, di addivenire ad un’accettabile soluzione è quello relativo alla sofferenza: sofferenza intesa, nel senso più lato del termine, come mancanza di uno o più elementi che riteniamo costituire i cardini su cui fondare una presunta felicità di vita. Dalla mancanza della salute fisica, nella sua infinita varietà di forme, con riferimento alle singole cause determinanti la menomazione (malattia, violenza subita da altri soggetti o per cause naturali ed ogni forma di carenza nella zona psicologica-affettiva, causa di sofferenze, a volte, più devastanti delle prime), fino ad arrivare alla mancanza più radicale che è quella della vita stessa.
Ma se accade che ognuno sia, più o meno, disposto ad accettare la sofferenza (compresa, innanzi tutto, la morte) che colpisce il soggetto in maniera del tutto naturale e quella, anche se non ricadente in modalità oggettivamente naturali, che riguarda una persona ritenuta “meritevole” di un certo tipo di punizione, ciò che resta oltremodo difficile da accettare è ogni tipo di sofferenza che ricade sul soggetto inerme, debole, soprattutto se in tenera età, in maniera oggettivamente al di fuori di qualsiasi plausibile giustificazione: in parole povere, la sofferenza del “giusto”.
La domanda, allora, che ci si pone circa l’origine della sofferenza è sempre la stessa: come può il Dio in cui crediamo – unico vero ed assoluto Bene – consentire che avvengano tutti gli orrori (siano essi causati da eventi naturali o attribuibili alla malvagità umana) ai quali siamo costretti ad assistere da passivi spettatori, in quanto destinatari del quotidiano bombardamento dei più diversi mezzi di informazione che tali fatti non evitano di mettere in particolare risalto per soddisfare, d’altra parte, la nostra, a volte masochistica, curiosità? Può essere stato Dio a creare il Male?
Il libro di Giobbe dà un’esauriente risposta a tali domande, anche se in modo, apparentemente, provocatorio.
Dio, in un colloquio con Satana – che mi sembra unico nel suo genere – accetta che quest’ultimo tenti il “giusto” Giobbe con ogni specie di sventure sempre più dure ed inspiegabili: alla fine Giobbe accusa un cedimento nella sua proverbiale pazienza e chiede a Dio spiegazioni di tutto quello che gli capita. “Eri tu con me quando ho creato il mondo?....quando ho diviso le acque dalla terra ferma?....quando ho creato gli animali?.......”. Giobbe capisce ed accetta tale risposta che, apparentemente, tale non è: i suoi mali non vengono da Dio, ma non gli è consentito di indagare oltre; l’argomento, infatti, resta coperto dal mistero, secondo gli imperscrutabili disegni divini. Ma se Dio, sommo Bene, non ha creato il Male, può il Male considerarsi un’entità contrapposta al Bene e, comunque, quando è comparso il Male?. Il Male, come opposizione al Bene al fine della sua negazione, è comparso con la ribellione di Lucifero e dei sui angeli verso Dio: la creatura angelica diventata diabolica, per sua libera scelta, non costituisce, peraltro, la personificazione del Male, ma ad esso tende, assumendosi anche il compito di perenne tentatore dell’uomo al fine di distoglierlo il più possibile dal Bene, per il quale l’uomo è, invece, preordinato.
Il Male, quindi, va considerato come il fine da raggiungere, da parte delle creature diaboliche nella continua lotta contro il Bene, senza, peraltro, mai riuscirci: la contrapposizione del Male al Bene è molto efficacemente, da qualcuno, paragonata all’attacco della ruggine verso il ferro: La ruggine (il Male) corrode il ferro (il Bene) ma non lo potrà mai distruggere totalmente, dato che, in tale ipotesi, distruggerebbe sé stessa. Sempre in tema di similitudini, altri ha paragonato il rapporto tra il Bene ed il Male a quello sussistente, in un pezzo di groviera, tra il formaggio ed i buchi.
Sulla base di quanto sopra osservato, risultano così evidenziati i due aspetti salienti del Male: il Male della pena (sofferenza) ed il Male della colpa (peccato), tra i quali, però, sussiste un misterioso rapporto di correlazione ed interdipendenza.
E’, infatti, di comune evidenza che il male della pena non ricade quasi mai, se non per circostanze che possono apparire del tutto accidentali, sull’autore del male della colpa, ciò in quanto la Giustizia divina non si realizza in questo mondo.
Per mera non riscontrabile intuizione, o suggestione, potrebbe ipotizzarsi un bilanciamento globale universale tra i due aspetti del Male, per cui al Male della colpa corrisponda un Male della pena cui, oltre a tutti gli uomini, partecipi anche tutto il creato, dal mondo animale, a quello vegetale, a tutta la natura in genere, dato che è lecito ipotizzare che il male della pena non sussisterebbe in assenza del male della colpa.
Ma se il problema del Male resta pur sempre un fatto misterioso, quale valore attribuire alla sofferenza, quando mi accorgo che a soffrire, come si è detto, sono i “giusti” ?.
Forse potrebbe essere utile per la risposta, il ricordo di un antico racconto ebraico, ambientato alla corte del Re Salomone.
Una povera vedova ha nella dispensa della sua modesta abitazione solo tre pani. Alla sua porta bussano tre mendicanti ai quali, l’uno dopo l’altro, consegna tutto il pane che ha, confidando nell’aiuto del Signore.
Si reca così a mendicare alla bottega di un ricco fornaio, il quale, rifiutando ogni aiuto, concede alla vedova di raccogliere i cicchi di grano dispersi per terra: la vedova accetta e ringrazia e, dopo un lungo e faticoso lavoro di ricerca, riesce a mettere insieme una discreta quantità di grano, tanto da riempire un sacchetto. Piena di gioia, ringraziando e lodando il Signore, la vedova intraprende la strada del ritorno a casa con il suo prezioso bottino. Senonché per strada viene colta da una grande bufera di vento: un soffio particolarmente impetuoso la sbatte per terra; nel rialzarsi si accorge di aver perso il suo sacchetto, portato via dal vento.
Comincia allora ad imprecare contro il vento che con quell’azione aveva dimostrato di non obbedire al Signore e contro lo stesso Signore che aveva consentito quanto accaduto. Sconsolata, si reca da Salomone per chiedere aiuto, dopo aver raccontato la sua sventura. Salomone la fa aspettare in una sala, dato che, in quella attigua deve ricevere alcuni mercanti che gli hanno chiesto udienza: costoro consegnano a Salomone la metà del ricavato della vendita della loro merce, trasportata in quella città con la loro nave, facendo presente di corrispondere, in tal modo, ad un loro voto al Signore per uno straordinario miracolo a loro stessi capitato. Infatti, mentre navigavano, erano stati colpiti da una violenta bufera che aveva prodotto una falla nella fiancata della loro nave che stava, perciò, affondando: in quella disperata situazione rivolgono un’accorata preghiera al Signore e sono, così, misteriosamente salvati. Successivamente, entrati in porto, avevano avuto modo di rendersi conto delle modalità dell’intervento divino, una volta portata la nave in secco ed aver notato che la falla risultava sorprendentemente tappata da un sacchetto di grano che, a riprova dell’accaduto, consegnano a Salomone.
Salomone, dopo aver mostrato il sacchetto alla vedova ed aver avuto conferma che era proprio quello da lei perduto, le offre la metà delle monete consegnate dai mercanti; la vedova rifiuta l’offerta, riprendendosi il sacchetto e ringraziando il Signore per averle fatto capire che anche il vento, nonostante le contrarie apparenze, aveva obbedito ai disegni divini.
Ma come può la sofferenza propria costituire sorgente di bene, oltre che per sé stessi, anche per gli altri?
La sofferenza è un mistero, come del resto mistero è la stessa vita dell’uomo: è un libro sigillato che non è dato ad alcuno di aprire e leggere, se non all’Agnello immolato.
E’ solo, infatti, meditando sulla sofferenza di Cristo crocifisso che l’uomo può, se non comprendere, almeno accettare il valore salvifico della sofferenza, se vissuta per amore e con amore nella partecipazione, per dono di Dio e libera scelta personale, alla Sua opera redentrice.
Quel giorno su quel monte le croci erano tre: tre uomini morivano apparentemente con la stessa morte e subendo le stesse pene; ma quale differenza tra loro!
La prima era la sofferenza di chi la rifiutava e continuava ad imprecare contro il Signore ed a nulla serviva; la seconda era la sofferenza accettata e giustificata per i propri peccati e, perciò, risultava a vantaggio della propria salvezza; la terza, infine, era quella del vero Giusto che volontariamente si offriva per la redenzione degli altri. A quest’ultima, comunque, non può attribuirsi un valore meramente soddisfattorio, tale da giustificarla su di un piano apparentemente giuridico, sulla base di criteri di giustizia umana che, d’altra parte, farebbe apparire la figura del Padre come un Dio, quasi vendicatore, che resta in attesa dell’espiazione della pena, per rimediare, così, all’offesa ricevuta; il suo valore salvifico va ricercato nell’adesione liberta e volontaria alla stessa: a tale sofferenza deve ritenersi misteriosamente associata la compassione del Padre, per la passione del suo unico Figlio, venendo meno, in caso contrario, lo stesso mistero Trinitario.
Ma, allora, può, forse, sostenersi che la sofferenza costituisce luogo privilegiato d’incontro con il Signore?
Non ci sono dubbi che particolari situazioni di sofferenza (sia dal punto di vista oggettivo che soggettivo) possano notevolmente contribuire al realizzarsi di quell’incontro. Non può, nello stesso tempo, escludersi che le stesse situazioni possano, invece, sortire l’effetto contrario: a volte, infatti, di fronte all’impossibilità di dare soddisfacenti risposte a malanni che oggettivamente appaiono sproporzionati ed insopportabili, può capitare che insorga un’incontrollata reazione contro tutti ed, in particolare, contro Dio stesso, in quanto ha permesso il verificarsi di certi eventi, dei quali è difficile trovare una qualsivoglia giustificazione e che appaiono quasi il frutto di un’autentica persecuzione; la stessa proverbiale pazienza di Giobbe subì un arresto, sia pure momentaneo, che sfociò in una vera e propria imprecazione contro Dio.
Di contro, situazioni di tutta tranquillità (sia sotto l’aspetto economico, che della salute, del lavoro e dei rapporti umani) non è detto che debbano necessariamente distogliere l’attenzione da problemi d’ordine esistenziale: può benissimo accadere che proprio un vita siffatta, priva di qualsivoglia contrarietà (ammesso che ciò possa, comunque, realizzarsi) determini l’insorgere della consapevolezza di una vita priva di significato e, di conseguenza, della necessità di una profonda indagine introspettiva che porti alla ricerca della vita “vera”, sulla via della Verità.
La fede è, in effetti, un dono del tutto gratuito del Signore che viene concesso a quanti con un libero atto della propria volontà si determinano, in apparente contrasto con ogni logica umana, a rendersi disponibili all’azione della Grazia divina: del tutto arbitraria, appare, comunque, la ricerca di particolari situazioni che possano favorire il manifestarsi di detta disponibilità. Innumerevoli, imprevedibili, sconvolgenti, ed a volte oggettivamente irrilevanti, sono, infatti, le particolari circostanze che in modo repentino, quasi folgorante, possono determinare un radicale cambiamento della propria vita, abbandonando, senza rimpianti la vecchia via, per intraprenderne una nuova, nella sequela del messaggio evangelico.
La sofferenza, comunque, resta sempre uno dei misteri più impenetrabili della fede cristiana ed è, per questo, che su di essa convergono le maggiori domande dell’uomo: perché si soffre, quali sono le cause e, soprattutto, perché tanta palese ingiustizia in essa, dato che a soffrire, il più delle volte, sono i soggetti più deboli, indifesi e meno meritevoli di castigo ?
La sofferenza, si dice, ha il suo fondamento nella colpa dell’uomo: ma se ciò è facilmente riscontrabile ogni volta che la sofferenza di qualcuno deriva direttamente dalla colpa di un altro, come accade in tutti i casi di violenze personali subite per la ferocia di un altro soggetto ( o, comunque, per mera sua colpevole negligenza), di atti terroristici ed, in genere, di qualsiasi altro comportamento addebitabile a qualcuno, sia soggetto individuale oppure collettivo, ivi compresi i conflitti bellici, ci sono, d’altra parte, innumerevoli casi nei quali non è percepibile alcun rapporto di causalità con l’intervento umano, come le malattie in genere e tutti i disastri naturali, come terremoti, maremoti ed altri fenomeni naturali che mietono, a ripetizione, un numero enorme di vittime inconsapevoli: ed è proprio con riferimento a quest’ultimi casi che quelle domande attendono, con più insistenza, adeguate risposte, anche se, con un’indagine più approfondita, potrebbe sostenersi che anche tali eventi sono, sia pure indirettamente, riconducibili, a volte, all’azione dell’uomo. Non si può, infatti, negare che la morte di un numero considerevole di bambini innocenti, nelle zone più depresse, per denutrizione, sia il frutto dell’ingiusto accentramento della ricchezza, determinato da uno sfrenato ed egoistico accaparramento di beni da parte di una minoranza di persone, mentre molte delle stesse calamità, così dette “naturali”, e numerose malattie sono riconducibili, invece, ad interventi devastanti sul territorio, come l’abnorme sfruttamento del suolo e l’immissione incontrollata di sostanze inquinanti, tutti interventi addebitabili all’opera dell’uomo.
Se accettassimo, comunque, l’idea che la sofferenza non esisterebbe sulla terra qualora non esistesse il male della colpa, se accettassimo l’idea che la salvezza di ogni singolo individuo può realizzarsi solo all’interno di un “popolo”, superando ogni idea individualistica, estranea alla fede cristiana, realizzando l’esodo dalla prigionia del proprio “io”, solo allora capiremmo quanto inutile sia soffermarsi sulla precedente distinzione e potremmo accettare l’idea che un’umanità senza una sofferenza, redentrice del peccato del mondo, sarebbe un’umanità disumanizzata.
E’ il peccato (così come comparso, fin dalle sue origini, con la ribellione di Lucifero e delle sue schiere) la causa principe della sofferenza e della condanna del genere umano, condanna che sarebbe stata irrevocabile se non fosse intervenuto l’Avvento del Figlio di Dio che, fattosi uomo ed assumendo su di sé tutto il peccato del mondo, ha offerto in sacrificio la propria vita, non come atto di riparazione e compensazione dell’offesa fatta a Dio, bensì come atto di folle amore per l’uomo, partecipando alla potenza suprema, perdonante di Dio, aprendo, così, per tutti e per sempre la strada della salvezza. “Un Dio che ci concedesse dall’alto il perdono non potrebbe che essere sospetto. Non c’è nulla di più sospetto di un certo modo paternalista di dire: io ti perdono. Ma un Dio fatto uomo che perdona morendo, la cui morte è simultaneamente perdono, e perdono universale, come potrebbe essere sospetto?” (François Varillon: Gioia di credere gioia di vivere).
“La sofferenza fa parte dell’esistenza umana”. Così afferma Benedetto XVI nell’enciclica “Spe salvi” e così prosegue: “ Essa deriva, da una parte, dalla nostra finitezza, dall’altra, dalla massa di colpa che, nel corso della storia si è accumulata e anche nel presente cresce in modo inarrestabile. Certamente bisogna fare tutto il possibile per diminuire la sofferenza: impedire, per quanto possibile, la sofferenza degli innocenti; calmare i dolori; aiutare a superare le sofferenze psichiche…..Sì, dobbiamo fare di tutto per superare la sofferenza, ma eliminarla completamente dal mondo non sta nelle nostre possibilità, semplicemente perché non possiamo scuoterci di dosso la nostra finitezza e perché nessuno di noi è in grado di eliminare il potere del male, della colpa che è continuamente fonte di sofferenza. Questo potrebbe realizzarlo solo Dio: solo un Dio che personalmente entra nella storia facendosi uomo e soffre in essa. Noi sappiamo che questo Dio c’è e che perciò questo potere che toglie il peccato del mondo è presente nel mondo. Con la fede nell’esistenza di questo potere, è emersa nella storia la speranza della guarigione del mondo. Ma si tratta, appunto, di speranza e non ancora di compimento…….Non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l’uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore…..Sofferenza che significa anche accettare l’altro che soffre, assumendo in qualche modo la sua sofferenza, cosicché essa diventa anche mia: ma proprio perché ora è divenuta sofferenza condivisa, nella quale c’è la presenza di un altro, questa sofferenza è penetrata dalla luce dell’amore….E infine, anche il ‘si’ all’amore è fonte di sofferenza, perché l’amore esige sempre espropriazioni del mio io, nelle quali mi lascio potare e ferire. L’amore non può affatto esistere senza questa rinuncia anche dolorosa a me stesso, altrimenti diventa puro egoismo e con ciò, annulla se stesso come tale. Soffrire con l’altro, per gli altri; soffrire per amore della verità e della giustizia; soffrire a causa dell’amore e per diventare una persona che ama veramente, questi sono elementi fondamentali di umanità, l’abbandono dei quali distruggerebbe l’uomo stesso”.
La sofferenza, così intesa ed accettata, diventa luogo privilegiato di incontro con Cristo e, ripetendo le parole di Benedetto XVI, “luogo di apprendimento della speranza”: speranza di salvezza che, misteriosamente, in virtù della Passione del Redentore, Gesù Cristo Crocifisso, è stata resa accessibile a tutti, pur restando conseguibile individualmente, con la personale adesione al Suo insegnamento di amore.
Quali che siano il peso, la fatica e le sofferenze della vita, dovrebbe predominare in tutti la gioia nell’aspettativa di quanto oggetto della nostra speranza, affidando le nostre sofferenze a Maria, Madre di Dio e Madre di misericordia che “in perfetta docilità allo Spirito sperimenta la ricchezza e l’universalità dell’amore di Dio, che le dilata il cuore e la fa capace di abbracciare l’intero genere umano” (dall’enc. Veritatis splendor, di Giovanni Paolo II): “Mi hai fatto riposare sul petto di mia madre”, così recita un versetto del salmo 21, che segue quello iniziale, proclamato con grido straziante da Gesù agonizzante, alla presenza di sua Madre che era lì, a piedi della Croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. "

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